”Ma a me chi mi ama?”

«Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai», così si è aperto il periodo dell’anno in cui ci troviamo, la Quaresima, i quaranta giorni che culminano nella Pasqua, la Resurrezione. Credenti o meno, in questo cammino c’è la verità di come la vita avanza: morti e resurrezioni continue. È infatti grazie alle prime tombe che nel Paleolitico compare qualcosa di «nuovo». L’archeologia e l’antropologia quando scoprono un animale che restituisce la polvere alla polvere, componendola «con cura» (inumare, da in più humus, terra, significa infatti in-terrare), sono costrette a dire «qui c’è l’uomo», un animale per il quale la polvere non è solo polvere. Proust lo dice così in Alla ricerca del tempo perduto: «I miei ricordi, i miei difetti, il mio carattere non si rassegnavano all’idea di non esistere più e non volevano saperne, per me, né del nulla, né di un’eternità da cui rimanessero esclusi». Sono nulla o vita eterna già adesso? Questa domanda ci raggiunge in momenti drammatici, quando, spogliati dalle certezze delle abitudini quotidiane e dalle maschere dei ruoli che ci rendono riconoscibili agli altri, siamo nudi di fronte al destino. Non dimenticherò mai il momento in cui ho toccato questa dolorosa nudità in una persona: un pianto disperato al telefono, nel cuore della notte, mi portò a rivestirmi e a uscire, per abbracciare un corpo che, scosso dai singhiozzi, ripeteva: «Ma a me chi mi ama?». La polvere ha paura di essere solo polvere. Ma è anche altro? 

Adamah in ebraico significa terreno fertile, per questo, nel racconto biblico, il nome dell’uomo è Adamo. Se i Greci mettono l’uomo «sul chi vive», cioè davanti al suo destino, chiamandolo «Mortale», gli Ebrei fanno lo stesso dicendolo «Terra di campo»: i primi gli ricordano di non essere un dio, i secondi di essere terra e soffio di Dio, mortale e divino, finito e infinito, un desiderio infinito che porta una terra finita a chiedersi «ma a me chi mi ama?». Senza amore infatti «cadiamo nella polvere», «ci sentiamo a terra». Pochi giorni fa ero a cena da amici che, prima di mettere i figli a letto, li hanno riuniti per recitare insieme l’Avemaria. Mi sono reso conto che l’aver imparato sin da piccolo a dire prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte mi ha non solo protetto da tante illusioni ma anche fatto capire che due sono i momenti che contano nella vita e in cui incontriamo il destino: «l’ora presente» e «l’ora della morte». Ma come si fa «esserci» veramente in questi momenti, che poi sono tutti (di adesso in adesso sino all’ultimo adesso)? 

Rispondendo alla domanda della polvere: «ma a me chi mi ama?». Provate a rispondere, appunto, adesso, ad alta voce, e avrete la misura del vostro essere vivi, di quanta vita eterna soffia nella vostra polvere. Anche in italiano la parola uomo (latino homo) viene da humus, la parte del terreno fatta di sostanze organiche, esito di decomposizione, necessarie alla vita altrui (morte e resurrezione). L’uomo è humus, terra resa feconda dalla morte. Ce lo ricorda ogni giorno il sonno, che ci obbliga all’orizzontalità del terreno: quando ci corichiamo infatti torniamo «umili», un’altra parola che viene da humus. L’umiltà non è la modestia, ma la verità: un giorno riposerò per sempre. L’umiltà, in quanto presa di coscienza di questa verità, sono terra ma feconda, richiede la seconda parte della domanda: «ma io chi amo?». «Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai» è sinonimo di «ricordati che sei fatto per essere amato e per amare». Ora però la polvere, per vincere la paura di essere solo polvere, alla impegnativa strada dell’amore spesso preferisce la scorciatoia del potere, che aiuta a dimenticare che siamo terra e alla terra ritorneremo: l’uomo di potere è infatti rappresentato sempre in piedi, egli ha dimenticato chi è. La differenza tra potere e amore la vedi infatti nel senso dell’umorismo: anche humour viene da humus come letizia viene da letame. Chi sa di essere polvere amata e amante ride di sé, invece chi cerca il potere non ride mai: è sempre «teso»… a conquistare la vita eterna con le sue sole forze. La gioia è sul viso degli amati e degli amanti, la serietà è invece il volto del potere. Per questo «ricordati che polvere sei e polvere ritornerai» non è un triste monito ma un promemoria salutare: sono fatto per essere amato e per amare. Il resto è tempo perduto — come ricorda il titolo del capolavoro di Proust — a cercare di costruire una corazza di terra, a fare un guerriero d’argilla, ma Adamo, terra fertile, non è chiamato alla guerra ma a dar frutto nella cura ricevuta e data, come recita, in Giardino della gioia, una poesia di Maria Grazia Calandrone intitolata «Come si dice amore nella tua lingua» nella quale, quasi come in un saggio filosofico-poetico, ripercorre la parola amore in molteplici lingue per poi tradurla in modo universale: «“Le lingue non hanno confini, i confini sono solo politici” “Esiste una lingua invisibile alla quale attingiamo tutti” “Ogni scrittura è traduzione di un mondo” “Io attraverso le lingue che conosco in cerca della lingua universale”. Questa è la vera avanguardia, la vera profezia per il futuro della specie. // Fekrì, hubùn, dashùri/ sirèl, bhalabasa, agàpi/ uthàndo, ài, jeclahày/ süyüü, obichàm, aròha/ lyubòv’, hkyithkyinnmayttàr/ khairtài, cariàd, upéndo/ amour, is bràe, snehàm/ maxabbàt, szerelém, rudo,/ adaràya, fitiavàna/ liebe, evîn, miq’vàrs. // Continuate in settenari chiari / con questi suoni, nuovi come il mondo / che dicono da prati / e da foreste, igloo, capanne / e palafitte, grattacieli e canoe: / io, questo niente / caduto nel sogno della materia, avrò cura di te / fino alla fine del mondo». Vien allora da dire: polvere sei e solo in amore ritornerai.

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